Storia d'Italia: in ricordo di una Mamma Partigiana nel giorno della Festa della Liberazione


Partigiani, o meglio Partigiane. Il Made in Italy è anche questo: la nostra storia, la nostra provenienza, le nostre rivoluzioni, le nostre mamme. E chi meglio di un figlio può ricordare una mamma. Una mamma speciale, una mamma partigiana, una mamma che ha fatto la storia, la storia d'Italia. Oggi è il giorno della Liberazione  e, con questo ricordo di un figlio, vogliamo ricordare a tutti noi italiani chi ha lottato per la nostra libertà, chi si è sacrificato, chi è morto. Adesso tocca a noi custodire il patrimonio che ci è stato dato da queste persone, anzi da queste Personalità. Tutti insieme abbiamo il compito di custodire il nostro Made in Italy tra cui, ripetiamo, c'è la nostra storia e le nostre origini. Se leggendo queste righe doveste commuovervi beh... siete ancora fieri di essere vivi e di essere Italiani.
Il figlio è lo scrittore ed editore Mario Gianfrate, la mamma è la signora Amalia Gianfrate alla quale tutti, a prescindere dal colore politico, dobbiamo dire grazie.



.... Nel giorno della Liberazione parlerò di mia madre
Mario Gianfrate

Nell’anniversario della Liberazione dirò di mia madre, Amalia.
Ripeteva spesso: Quello che abbiamo fatto lo abbiamo fatto perché sentivamo di farlo, malgrado i rischi. Ma ho l’impressione che molti abbiano dimenticato”. Per questo scriverò di lei.
Inizierò dall’epilogo, da quella straordinaria giornata dell’aprile 1945. A Torino è stato dato l’ordine che sancisce l’inizio della insurrezione per le tredici – in codice, Aldo dice 26x1 -. Sulla città, dalle diverse vallate e dai monti, confluiscono le brigate partigiane. Mia madre ha preso posto nell’ultima camionetta della lunga fila, tra il conducente del mezzo e un giovane partigiano. Poco fuori il paese li attende un’imboscata dei repubblichini; alcune raffiche di mitragliatrice e quel giovane partigiano cade riverso, con il volto rigato di sangue, tra le braccia di mia madre. La camionetta inverte la marcia e fa ritorno al paese per andare a seppellire quell’ultimo caduto dal nome ignoto, morto per la libertà.
Mia madre non aveva a quel tempo una coscienza politica. La sua era stata una educazione cristiana, non bigotta; ma è chiara in lei la consapevolezza di un impegno in prima persona – quali che ne siano le conseguenze e i pericoli – per scacciare i tedeschi r i fascisti che imperversano nella zona.
E’ staffetta partigiana nella 105 Brigata della Divisione Garibaldi, tiene cioè i collegamenti tra le diverse “bande” operanti nel territorio. Ha avuto lei l’incarico di avvisare i giovani rimasti in paese, a Boves, che è in procinto un rastrellamento da parte di fascisti e tedeschi. Viene però preceduta. In prossimità di Boves vede il fumo delle cascine incendiate, delle stalle nelle quali sono rinchiusi gli animali che bruciano vivi. Riuscii a farla scrivere: Iniziarono ad interrogare la gente radunata nella piazza del paese, per sapere dove si nascondessero i partigiani ma nessuno, malgrado gli schiaffi ed i calci, rispose alle loro domande. Fu allora che i tedeschi, ma soprattutto i repubblichini di Salò, quelli della Ettore Muti che portavano il teschio sul loro fez, sfogarono la propria rabbia sparando ed uccidendo gente inerme. Scene raccapriccianti in cui si imbatterà spesso, come nella giornata del Corpus Domini 1944 a Bagnolo Piemonte: Presero quattro giovani di diciotto, diciannove anni e li impiccarono ai balconi, mani e piedi legati, ma anziché usare la corda li appesero con quei grossi ganci che usano i macellai per appendere la carne, conficcati nel collo. Dopo parecchie ore, quando i fascisti andarono via e ci potemmo avvicinare, uno dei quattro partigiani, conosciuto col nome di battaglia “Genova”, ebbe ancora la forza di invocare “mamma”.
Più volte fermata, a lungo interrogata, tenuta in ostaggio nell’Hotel del paese, riesce a fuggire con l’aiuto di uno storpio che è in realtà un vigoroso partigiano e di un’altra staffetta, Maria Airaudo che, facendo leva sulle sue grazie femminili, distoglie le sentinelle all’ingresso del locale; nasconde per mesi un giovane militare meridionale – che poi diviene suo marito, mio padre – sbandato dopo i fatti dell’8 settembre ’43 e che non ha aderito, come ordinano i bandi pubblici dei Comandi nazifascisti, alla RSI, fino a quando una delazione di una spia fascista lo fa catturare e deportare nel campo di concentramento di Mauthausen prima, di Dachau e Monaco di Baviera successivamente.
Aveva ancora tanta rabbia dentro da alterarsi perché la scuola non insegna ai giovani cosa abbia rappresentato questa gloriosa pagina di storia che è la Resistenza. Temeva che gli anziani avessero dimenticato e i giovani non sapessero.
Ho scritto di lei non per rinfocolare odio ma perché nessuno dimentichi che tutto ciò è potuto accadere, che tanti giovani un giorno, senza nulla chiedere e nulla pretendere, salirono sulle montagne, lottarono, caddero nella battaglia, dinanzi ai plotoni di esecuzione, nei lager tedeschi, per riconquistare la perduta libertà e per riscattare l’Umanità dalla vergogna e dal terrore in cui il fascismo e il nazismo l’avevano gettata.
Bella, ciao…

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